L’attuale epidemia causata dal Coronavirus sta mettendo in crisi una visione del mondo che si è consolidata negli ultimi anni basata sull’abolizione delle barriere fisiche tra le persone.
Alcuni esempi: dai cubicoli
e dagli uffici privati si è passati a spazi aperti (open-space), dagli uffici
postali in cui operatore e cliente erano separati da cristalli antiproiettile,
ai nuovi uffici progettati da De Lucchi in cui sono state abolite tutte le
barriere. Negli uffici hanno assunto sempre più importanza gli spazi
relazionali, come le aree relax, le caffetterie, le huddle-room.
Si è consolidata l’opinione
che il “noi” viene prima dell’”io”, che le relazioni interpersonali sono
fondamentali per stimolare la creatività
e per garantire condizioni di lavoro migliori.
Non a caso si è parla di
“contaminazione”, come elemento decisivo per stimolare l’inventiva, l’ispirazione,
l’immaginazione, per dar modo ai talenti di esprimere il proprio estro e la
propria genialità.
Stevens Johnson nel suo
libro “Dove nascono le grandi idee”, parla del reef (la barriera corallina)
come luogo eccezionalmente inventivo per il modo in cui i microorganismi hanno
imparato a collaborare, anziché lottare.
E’ il momento di riflettere
e mettere in discussione tutte le certezze recentemente conquistate.
Certamente se ascoltiamo gli
scienziati c’è da aver paura: secondo Ilaria Capua dobbiamo aspettarci altre
sorprese. Una volta i virus si muovevano a piedi, adesso, nella società
globalizzata si muovono in aereo, in treno attraverso megalopoli dense di
uomini brulicanti, che vivono sempre più a stretto contatto, nei bus, nelle
metropolitane, nelle piazze affollate.
Indubbiamente non dobbiamo farci
prendere dal panico, altrimenti il nostro sistema economico è destinato a
crollare con effetti imprevedibili per l’intera società. E’ necessario, il più
rapidamente possibile, imparare a convivere con questa nuova emergenza, come
hanno fatto i nostri nonni con la guerra o con le epidemie come la Spagnola che
ha fatto dai 100 ai 500 milioni di morti. E’ il momento di metabolizzare le
nuove distanze sociali, cosa non facile…
Colgo l’occasione per pubblicare il post di Daniele Macchini, medico alle Cliniche Humanitas Gavazzeni, che vive quest’emergenza in prima linea.
Silvio Rispo
Coronavirus a Bergamo,
medico Humanitas su Facebook: «Situazione drammatica, altro che normale
influenza»
L’intervento sui social di
Daniele Macchini, medico alle Cliniche Humanitas Gavazzeni. Una testimonianza
importante sulla reale portata del coronavirus.
Redazione BERGAMO online – 7
marzo 2020
In una delle costanti mail
che ricevo dalla mia direzione sanitaria a cadenza più che quotidiana ormai in
questi giorni, c’era anche un paragrafo intitolato «fare social
responsabilmente», con alcune raccomandazioni che possono solo essere
sostenute. Dopo aver pensato a lungo se e cosa scrivere di ciò che ci sta
accadendo, ho ritenuto che il silenzio non fosse affatto da responsabili.
Cercherò quindi di trasmettere alle persone «non addette ai lavori» e più
lontane alla nostra realtà, cosa stiamo vivendo a Bergamo in questi giorni di
pandemia da Covid-19. Capisco la necessità di non creare panico, ma quando il
messaggio della pericolosità di ciò che sta accadendo non arriva alle persone,
e sento ancora chi se ne frega delle raccomandazioni e gente che si raggruppa
lamentandosi di non poter andare in palestra o poter fare tornei di calcetto,
rabbrividisco. Capisco anche il danno economico e sono anch’io preoccupato di
quello. Dopo l’epidemia il dramma sarà ripartire.Però, a parte il fatto che
stiamo letteralmente devastando anche dal punto di vista economico il nostro
Sistema sanitario nazionale, mi permetto di mettere più in alto l’importanza
del danno sanitario che si rischia in tutto il paese e trovo a dir poco
«agghiacciante» ad esempio che non si sia ancora istituita una zona rossa già
richiesta dalla Regione, per i comuni di Alzano Lombardo e Nembro (tengo a
precisare che trattasi di pura opinione personale). Io stesso guardavo con un
po’ di stupore le riorganizzazioni dell’intero ospedale nella settimana
precedente, quando il nostro nemico attuale era ancora nell’ombra: i reparti
piano piano letteralmente «svuotati», le attività elettive interrotte, le
terapie intensive liberate per creare quanti più posti letto possibili. I
container in arrivo davanti al pronto soccorso per creare percorsi
diversificati ed evitare eventuali contagi. Tutta questa rapida trasformazione
portava nei corridoi dell’ospedale un’atmosfera di silenzio e vuoto surreale
che ancora non comprendevamo, in attesa di una guerra che doveva ancora
iniziare e che molti (tra cui me) non erano così certi sarebbe mai arrivata con
tale ferocia (apro una parentesi: tutto ciò in silenzio e senza
pubblicizzazioni, mentre diverse testate giornalistiche avevano il coraggio di
dire che la sanità privata non stava facendo niente).
Ricordo ancora la mia
guardia di notte di una settimana fa passata inutilmente senza chiudere occhio,
in attesa di una chiamata dalla microbiologia del Sacco. Aspettavo l’esito di
un tampone sul primo paziente sospetto del nostro ospedale, pensando a quali
conseguenze ci sarebbero state per noi e per la clinica. Se ci ripenso mi
sembra quasi ridicola e ingiustificata la mia agitazione per un solo possibile
caso, ora che ho visto quello che sta accadendo. Bene, la situazione ora è a
dir poco drammatica. Non mi vengono altre parole in mente. La guerra è
letteralmente esplosa e le battaglie sono ininterrotte giorno e notte. Uno dopo
l’altro i poveri malcapitati si presentano in pronto soccorso. Hanno tutt’altro
che le complicazioni di un’influenza. Piantiamola di dire che è una brutta
influenza. In questi due anni ho imparato che i bergamaschi non vengono in
pronto soccorso per niente. Si sono comportati bene anche stavolta. Hanno
seguito tutte le indicazioni date: una settimana o dieci giorni a casa con la
febbre senza uscire e rischiare di contagiare, ma ora non ce la fanno più. Non
respirano abbastanza, hanno bisogno di ossigeno. Le terapie farmacologiche per
questo virus sono poche.
Il decorso dipende
prevalentemente dal nostro organismo. Noi possiamo solo supportarlo quando non
ce la fa più. Si spera prevalentemente che il nostro organismo debelli il virus
da solo, diciamola tutta. Le terapie antivirali sono sperimentali su questo
virus e impariamo giorno dopo giorno il suo comportamento. Stare al domicilio
sino a che peggiorano i sintomi non cambia la prognosi della malattia. Ora però
è arrivato quel bisogno di posti letto in tutta la sua drammaticità. Uno dopo
l’altro i reparti che erano stati svuotati, si riempiono a un ritmo
impressionante. I tabelloni con i nomi dei malati, di colori diversi a seconda
dell’unità operativa di appartenenza, ora sono tutti rossi e al posto
dell’intervento chirurgico c’è la diagnosi, che è sempre la stessa maledetta:
polmonite interstiziale bilaterale. Ora, spiegatemi quale virus influenzale
causa un dramma così rapido.
Perché quella è la differenza
(ora scendo un po’ nel tecnico): nell’influenza classica, a parte contagiare
molta meno popolazione nell’arco di più mesi, i casi si possono complicare meno
frequentemente, solo quando il virus distruggendo le barriere protettive delle
nostre vie respiratorie permette ai batteri normalmente residenti nelle alte
vie di invadere bronchi e polmoni provocando casi più gravi. Il Covid 19 causa
una banale influenza in molte persone giovani, ma in tanti anziani (e non solo)
una vera e propria Sars perché arriva direttamente negli alveoli dei polmoni e
li infetta rendendoli incapaci di svolgere la loro funzione. L’insufficienza
respiratoria che ne deriva è spesso grave e dopo pochi giorni di ricovero il
semplice ossigeno che si può somministrare in un reparto può non bastare.
Scusate, ma a me come medico non tranquillizza affatto che i più gravi siano
prevalentemente anziani con altre patologie. La popolazione anziana è la più
rappresentata nel nostro paese e si fa fatica a trovare qualcuno che, sopra i
65 anni, non prenda almeno la pastiglia per la pressione o per il diabete.
Vi assicuro poi che quando
vedete gente giovane che finisce in terapia intensiva intubata, pronata o
peggio in Ecmo (una macchina per i casi peggiori, che estrae il sangue, lo
ri-ossigena e lo restituisce al corpo, in attesa che l’organismo, si spera,
guarisca i propri polmoni), tutta questa tranquillità per la vostra giovane età
vi passa. E mentre ci sono sui social ancora persone che si vantano di non aver
paura ignorando le indicazioni, protestando perché le loro normali abitudini di
vita sono messe «temporaneamente» in crisi, il disastro epidemiologico si va
compiendo. E non esistono più chirurghi, urologi, ortopedici, siamo unicamente
medici che diventano improvvisamente parte di un unico team per fronteggiare
questo tsunami che ci ha travolto.
I casi si
moltiplicano, arriviamo a ritmi di 15-20 ricoveri al giorno tutti per lo stesso
motivo. I risultati dei tamponi ora arrivano uno dopo l’altro: positivo,
positivo, positivo. Improvvisamente il pronto soccorso è al collasso. Le
disposizioni di emergenza vengono emanate: serve aiuto in pronto soccorso. Una
rapida riunione per imparare come funziona il software di gestione del pronto
soccorso e pochi minuti dopo sono già di sotto, accanto ai guerrieri che stanno
al fronte della guerra. La schermata del pc con i motivi degli accessi è sempre
la stessa: febbre e difficoltà respiratoria, febbre e tosse, insufficienza
respiratoria ecc… Gli esami, la radiologia sempre con la stessa sentenza: polmonite
interstiziale bilaterale. Tutti da ricoverare. Qualcuno già da intubare va in
terapia intensiva. Per altri invece è tardi. La terapia intensiva diventa
satura, e dove finisce la terapia intensiva se ne creano altre. Ogni
ventilatore diventa come oro: quelli delle sale operatorie che hanno ormai
sospeso la loro attività non urgente diventano posti da terapia intensiva che
prima non esistevano. Ho trovato incredibile, o almeno posso parlare per
l’Humanitas Gavazzeni (dove lavoro) come si sia riusciti a mettere in atto in
così poco tempo un dispiego e una riorganizzazione di risorse così finemente
architettata per prepararsi a un disastro di tale entità. E ogni
riorganizzazione di letti, reparti, personale, turni di lavoro e mansioni viene
costantemente rivista giorno dopo giorno per cercare di dare tutto e anche di
più. Quei reparti che prima sembravano fantasmi ora sono saturi, pronti a
cercare di dare il meglio per i malati, ma esausti. Il personale è sfinito. Ho
visto la stanchezza su volti che non sapevano cosa fosse nonostante i carichi
di lavoro già massacranti che avevano. Ho visto le persone fermarsi ancora
oltre gli orari a cui erano soliti fermarsi già, per straordinari che erano
ormai abituali. Ho visto una solidarietà di tutti noi, che non abbiamo mai
mancato di andare dai colleghi internisti per chiedere «cosa posso fare adesso
per te?» oppure «lascia stare quel ricovero che ci penso io». Medici che
spostano letti e trasferiscono pazienti, che somministrano terapie al posto
degli infermieri. Infermieri con le lacrime agli occhi perché non riusciamo a
salvare tutti e i parametri vitali di più malati contemporaneamente rilevano un
destino già segnato. Non esistono più turni, orari.
La vita sociale per noi è
sospesa. Io sono separato da alcuni mesi, e vi assicuro che ho sempre fatto il
possibile per vedere costantemente mio figlio anche nelle giornate di smonto
notte, senza dormire e rimandando il sonno a quando sono senza di lui, ma è da
quasi 2 settimane che volontariamente non vedo né mio figlio né miei familiari
per la paura di contagiarli e di contagiare a sua volta una nonna anziana o
parenti con altri problemi di salute. Mi accontento di qualche foto di mio
figlio che riguardo tra le lacrime e qualche videochiamata. Perciò abbiate
pazienza anche voi che non potete andare a teatro, nei musei o in palestra.
Cercate di aver pietà per quella miriade di persone anziane che potreste
sterminare. Non è colpa vostra, lo so, ma di chi vi mette in testa che si sta
esagerando e anche questa testimonianza può sembrare proprio un’esagerazione
per chi è lontano dall’epidemia, ma per favore, ascoltateci, cercate di uscire
di casa solo per le cose indispensabili. Non andate in massa a fare scorte nei
supermercati: è la cosa peggiore perché così vi concentrate ed è più alto il
rischio di contatti con contagiati che non sanno di esserlo. Ci potete andare
come fate di solito. Magari se avete una normale mascherina (anche quelle che
si usano per fare certi lavori manuali) mettetevela. Non cercate le ffp2 o le
ffp3. Quelle dovrebbero servire a noi e iniziamo a far fatica a reperirle.
Ormai abbiamo dovuto ottimizzare il loro utilizzo anche noi solo in certe
circostanze, come ha recentemente suggerito l’OMS in considerazione del loro
depauperamento pressoché ubiquitario. Eh sì, grazie allo scarseggiare di certi
dispositivi io e tanti altri colleghi siamo sicuramente esposti nonostante
tutti i mezzi di protezione che abbiamo. Alcuni di noi si sono già contagiati
nonostante i protocolli. Alcuni colleghi contagiati hanno a loro volta
familiari contagiati e alcuni dei loro familiari lottano già tra la vita e la
morte. Siamo dove le vostre paure vi potrebbero far stare lontani. Cercate di
fare in modo di stare lontani.
Dite ai vostri familiari
anziani o con altre malattie di stare in casa. Portategliela voi la spesa per
favore. Noi non abbiamo alternativa. È il nostro lavoro. Anzi quello che faccio
in questi giorni non è proprio il lavoro a cui sono abituato, ma lo faccio lo
stesso e mi piacerà ugualmente finché risponderà agli stessi principi: cercare
di far stare meglio e guarire alcuni malati, o anche solo alleviare le
sofferenze e il dolore a chi non purtroppo non può guarire. Non spendo invece
molte parole riguardo alle persone che ci definiscono eroi in questi giorni e
che fino a ieri erano pronti a insultarci e denunciarci. Tanto ritorneranno a
insultare e a denunciare appena tutto sarà finito. La gente dimentica tutto in
fretta. E non siamo nemmeno eroi in questi giorni. E’ il nostro mestiere.
Rischiavamo già prima tutti i giorni qualcosa di brutto: quando infiliamo le
mani in una pancia piena di sangue di qualcuno che nemmeno sappiamo se ha l’HIV
o l’epatite C; quando lo facciamo anche se lo sappiamo che ha l’HIV o l’epatite
C; quando ci pungiamo con quello con l’HIV e ci prendiamo per un mese i farmaci
che ci fanno vomitare dalla mattina alla sera. Quando apriamo con la solita
angoscia gli esiti degli esami ai vari controlli dopo una puntura accidentale
sperando di non esserci contagiati. Ci guadagniamo semplicemente da vivere con
qualcosa che ci regala emozioni. Non importa se belle o brutte, basta portarle
a casa. Alla fine cerchiamo solo di renderci utili per tutti. Ora cercate di
farlo anche voi però: noi con le nostre azioni influenziamo la vita e la morte
di qualche decina di persone. Voi con le vostre, molte di più. Per favore
condividete e fate condividere il messaggio. Si deve spargere la voce per
evitare che in tutta Italia succeda ciò che sta accadendo qui».